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UNA DOMENICA BESTIALE


La sveglia suona alle quattro e trenta, mi sveglio di soprassalto e molto agitato, nonostante tutto, le poche ore passate a dormire, trascorse tranquille e con sonno profondo, ma ora no….

Dopo una breve colazione, via con moglie e figlio, l’appuntamento è alle sette presso i tornelli della fermata Comasina della gialla, con gli amici del Gruppo Protezione Civile Paracadutisti Regione Lombardia, che ringrazio molto per la loro professionalità, simpatia e tanta gentilezza con me e i miei cari, Grandi.

Si parte, destinazione Scuola di paracadutismo sportivo BFU (Body Fly University), un piccolo aeroporto alle porte di Reggio nell’Emilia.

Si mi butto con il paracadute, ovviamente non solo, in tandem. Un amico ha dovuto rinunciare e l’ho sostituito, ma ad una condizione, che gli relazioni tutto nei minimi particolari, ci provo…

Scendo dal pullman, sono passate da poco le nove, le gambe sono molli, “chi si butta in tandem da questa parte”, un saluto a moglie e figlio, che credo di non più rivedere fino al mio ritorno a terra, non sarà così.

Entriamo in un hangar affollato e al quanto disordinato, tute variopinte vagano caotiche, con all’interno persone allegre, eccitate che sbracciano e mimano movimenti strani. In un lato alcuni divani e un tavolo, dove con l’aiuto dei nostri accompagnatori, compiliamo delle autocertificazioni, fatto ciò ci dicono di attendere fuori che un incaricato ci farà un breve briefing.

Un omone sardo ci invita sul fianco del hangar dove è posizionato un facsimile della cabina dell’aereo, non riuscivo a capire come poteva essere il velivolo, poi lo capirò. Nel frattempo ritrovo mio figlio e mia moglie e con loro seguo la spiegazione. “Questo è un modello di portellone dell’aereo su cui salirete per buttarvi, state attenti nel salire perché e molto basso e rischiate di picchiare la testa”, aia cominciamo bene, “un volontario”, silenzio totale, “vieni tu”, per fortuna non ero io, “l’accompagnatore si siede dietro”, e si mette a cavallo della panchina situata parallela al portellone verso il fondo della cabina, “tu ti siedi di fronte a me dandomi le spalle e standomi molto vicino, così che io possa attaccare le due imbragature, quando si aprirà il portellone e ti darò il via tu solleverai la gamba verso l’interno e ti girerai verso l’uscita, metterai i piedi fuori, le mani incrociate sul petto, appoggerai la testa all’indietro sulla mia spalla destra e guarderai verso destra dove ci sarà un operatore che riprenderà tutto, mi raccomando sorridete, giù”, dopo alcune altre piccole battute si congeda augurandoci buon lancio.

La giornata comincia a farsi afosa, i pochi raggi che filtrano tra le nuvole, che non promettono niente di buono per il proseguo della giornata, arroventano l’attesa, “speriamo mi chiamino subito”. I primi solisti arrivano dal cielo facendo fischiare le loro vele sopra le nostre teste, i primi dei nostri vengono chiamati per prepararsi, indossare una tuta e l’imbragatura e partono sopra un vecchio Ducato, ammaccato e brontolante, a cui son stati tolti i portelloni posteriori, che fa la spola dal hangar all’aereo. E passa il tempo e il cielo si scurisce sempre più, “se piove fermano tutto e non mi lancio, non possono certo dire che non ci abbia provato!”, ormai sono le tredici e trenta passate e quasi tutti i nostri si sono lanciati, è rimasta solo Silvia, che da più di mezzora, passeggia sorridente, con la sua tuta arancione e nera, con la parte superiore legata in vita.

“Ivan Nesossi” l’alto parlante, che gracchia da tutta mattina, chiamando nomi, cognomi, voli e quant’altro, storpiando in mille modi il mio cognome mi riporta alla realtà, tocca me.

Vengo accompagnato nel hangar, vengo condotto in uno stanzino per scegliermi una tuta, la vorrei come quella di Silvia ma non c’è la misura, me ne danno una verde felpata, “ti terrà forse un po’ caldo”, vi assicuro di no. Ritornati vicini all’apertura del hangar conosco il mio accompagnatore, di cui non vi so dire il nome perché tutto quello che mi veniva detto cominciava a scivolarmi via senza essere recepito. Mi viene messa l’imbragatura e un operatore con un casco in mano ed una fotocamera appiccicata sopra comincia a riprendermi, vengo invitato a salire sul furgone, con lo sguardo cercavo di individuare i miei per un ultimo saluto senza però trovarli, salgo e mi siedo sopra il rialzo che copre la ruota posteriore sinistra del mezzo, dopo poco sale anche Silvia che si siede di fronte a me. “Sta cominciando a piovere”, “ormai andiamo”, “speriamo non peggiori”. Si parte dopo pochi metri vedo di sfuggita mia mogli e mio figlio, gli faccio un cenno con la mano, ma non credo mi abbiano visto. Ballonzolando su di una strada sconnessa e in un sentiero formatosi nel prato per il continuo passaggio del furgone arriviamo vicini all’aereo. Ormai piove bene, le gocce, sull’ampio cabinato aumentano molto il loro fragore.

Il Ducato è ormai fermo da alcuni istanti, i due accompagnatori seduti con le gambe a penzoloni fuori del mezzo, sono già scesi carichi del grosso zaino contenente il paracadute, così come i due operatori e il paracadutista che completa in ogni posto disponibile l’aereo. Si alza anche Silvia che sorridendo mi porge la mano, che io molto cavallerescamente stringo e mi faccio quasi sollevare di peso. Scendo dal mezzo, “seguimi”, è il mio accompagnatore che corre verso il velivolo, a passi goffi e incerti attraverso il pezzo di prato che separa i due mezzi e lo raggiungo. Lui sale, “attento alla testa” e mi invita a salire dopo essersi seduto sulla destra a cavallo della panchina, quindi con le spalle al pilota, io lo seguo sempre con movenze molto incerte e mi siedo davanti a lui appoggiando la mia schiena al suo petto. Salgono anche gli altri, l’accompagnatore di Silvia, Silvia, che si siedono di fronte a noi a cavallo della panchina con le spalle alla coda, il mio operatore che si siede per terra nell’angolino alla mia sinistra verso la coda, l’altro operatore sempre a terra al mio fianco e fra i due il parà solitario. Si chiude il portellone scorrendo sopra un binario credo arrugginito dato gli strani rumori che provoca, spinto nel primo tratto dal mio operato e nell’ultimo tratto dal parà. La scatoletta di metallo è subito in movimento, traballando e cigolando, dal prato alla pista e dopo pochi istanti è già in volo.

Di solito al momento del decollo un po’ tensione ce l’ho sempre, invece non mi fa nessun effetto, anche se sembra una slitta trascinata su per un sentiero sassoso di montagna. E si, il pensiero é proprio rivolto ad altro. Le nuvole si avvicinano, le gocce di acqua scivolano rigando i finestrini dell’abitacolo. “Ma quand’è che mi attacca alla sua imbragatura, ma si ricorda poi di farlo o glielo rammento”, dopo poco vedo che Silvia viene ancorata dal suo accompagnatore, che la stringe con forza a se, dopo poco è il mio turno, moschettoni che si aprono e chiudono, cinture che scorrono in fibbie, “stringiti verso di me”, punto i piedi per terra e spingo, “non così, alza il sedere e vieni verso di me”, ci provo, testa sul soffitto, “bravo così”. Il mio corpo è ormai un tutt’uno con il suo. La tensione comincia a salire, non ce la faccio io rinuncio, non sono certo il primo che lo fa. Le mani sono sudate nonostante la temperatura non sia certo delle più calde. L’operatore mi fa cenno di salutare e sorridere, na parola. Tutti cominciano a scambiarsi cinque con le mani, darsi pugnetti e altri segni convenzionali, anche Silvia allunga le sue mani verso di me con i palmi verso l’alto, li colpisco con le poche forze che mi sono rimaste, giro le mani coi palmi all’insù, ma lei mi porge i pugnetti, che colpisco, e poi mi mostra credo un misto tra pollice alzato e corna, che provo ad imitare, il suo sorriso e la sua serenità mi danno la forza per affrontare gli ultimi istanti di salita. Siamo ormai sopra i quattromila. “Braccia al petto e talloni verso il sedere, quando ti picchio sulla spalla allarghi le braccia”, le ultime istruzioni, “va bene”. L’aereo ferma la spinta del motore e mettendosi orizzontale si appoggia quasi come sopra ad un pianerottolo. Ormai siamo avvolti da intense nuvole cariche di pioggia, il portellone si apre velocemente, l’ambiente viene invaso da un vento gelido che rinfranca un po’ le mie tremolanti gambe, in un secondo il parà solitario è già scomparso.

“Andiamo”. La mia gamba destra si alza a fatica per scavalcare la panca, braccia al petto attaccate all’imbragatura, mi avvicino all’uscita senza accorgermi ho già i piedi fuori, una mano tira la mia testa verso il dietro a destra. Giù… Senza neppure il tempo di riflettere ero già nel vuoto, nel bianco opaco della nuvola, con un vento fortissimo in faccia e con delle schegge minuscole che mi colpivano il viso, il petto era schiacciato dalla forza del vento, per qualche istante ho chiuso gli occhi, anche se protetti da occhialini. scordandomi di tutto venivo posizionato con le braccia larghe e i talloni verso il sedere dal mio accompagnatore, la violenza delle gocce bruciava la faccia, non so per quanti secondi siamo scesi ma sono stati interminabili, una caduta libera di più di duemila metri. Per un istante ho visto anche il mio operatore passarmi davanti.

Le nuvole stanno finendo si scorge il primo verde della terra, un lieve strappo è preludio all’apertura del paracadute, la posizione orizzontale che avevamo tenuto fino a quel momento, lascia spazio a quella verticale, mi sento tirare violentemente verso l’alto e dopo alcuni secondi rimango come appeso al cielo. “Tutto bene”, “si mi fa solo un po’ male la testa”, facciamo alcune rotazioni verso sinistra come se stessimo scendendo da una scala a chiocciola virtuale. Ora riesco a scorgere un fiume, una strada, una scacchiera di campi e prati, la pista, ormai siamo quasi atterrati, passiamo sopra l’hangar, ormai è ora di sollevare le gambe orizzontali davanti a me, puff, il mio sedere atterra dolcemente sull’erba. L’eco delle parole delle persone che corrono verso di noi, arrivano a fatica attraverso le mie orecchi tappate. Poco più in là atterra dolcemente anche Silvia che avevo lasciato sull’aereo. Saluto e ringrazio il mio accompagnatore e barcollante, tra i complimenti, non so quanto meritati, vengo accompagnato verso l’hangar, dove mi viene tolta l’imbragatura e la tuta. “Come va”, “ho le orecchie tappate”, “tappati il naso e soffia forte”, decisamente meglio, appena in tempo, ormai sono le due passate, e una voce mi dice, “andiamo a mangiare adesso”, “si”.

Dopo di noi non si è più potuto lanciare nessuno, forse era già troppo brutto anche per noi, ma va bene così. Dopo più di quattro ore e mezza di attesa, non averlo fatto, sarebbe stato un vero peccato. Unico rammarico non aver mai avuto l’istinto di guardare in alto verso il paracadute.

Rinnovo i miei ringraziamenti a tutti, ma soprattutto a Silvia, che col suo sorriso e la sua serenità, mi ha accompagnato e sostenuto in questa incredibile avventura.

Non so se lo rifarò, ma sono orgoglioso di averlo fatto.

Per vedere il video della giornata: clicca qui

Ivan Nesossi

E noi, proprio noi, non solo vediamo il mondo, ma lo guardiamo dai campi di sci sulle montagne più alte, dalle barche a vela su laghi e mari profondi, dai rettangoli di equitazione, dai diamanti di baseball e dai poligoni di tiro con l'arco, dalle piste di pattinaggio e dai circuiti di atletica, e ancora non abbiamo finito!
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