|
Un fuoricampo con la palla sonora
|
Da "Il Corriere della sera" (23 febbraio 2004)
di Carlo Grandini
Così Loredana ha sconfitto il buio.
Cieca dopo un trapianto, gioca a baseball.
Va in barca a vela, ha pattinato sul ghiaccio e preso lezioni di arrampicata: «Lo sport mi ha ridato la forza di vivere».
Sei anni di danza classica, quand'era ragazza, e tre di danza moderna. Ginnastica artistica e atletica leggera. Liceo scientifico, maturità, un anno di Medicina all'Università. Poi la grande evasione dalla famiglia con la scalata a un sogno, verso Milano: accompagnatrice turistica e, in seguito, impiegata in una ditta di autonoleggio a Linate.
A quel punto Loredana aveva circa trent'anni. Tutti dipanati nel suo gomitolo personale, reso sempre più complesso dai continui spostamenti del padre, militare di carriera: da Brescia a Verona, alla Puglia, a Firenze, ai pressi di Roma, all'Egitto. Se lei parla francese, inglese, arabo, spagnolo e naturalmente l'italiano, il motivo risiede pure nel destino di nomade, anche felice, che benevolmente l'ha accompagnata non oltre quei circa trent'anni della vita.
Perché fu allora che Loredana si ammalò di leucemia. E fu poco dopo che subì un trapianto di midollo («Mia sorella Manuela, la donatrice, non saprà mai fino in fondo quale sia il valore del regalo che mi ha fatto»).
Con la guarigione, il peggio sembrava finito lì. E invece... «Invece la malattia aveva creato in me una forma particolare di rigetto, che mi ha preso le cornee, opacizzandole, e il sistema lacrimale. Una patologia chiamata anche "dell'occhio secco".
La perdita della vista si è rivelata graduale ma ineluttabile. Se riuscissi, come si dice, ad aprire gli occhi probabilmente percepirei delle ombre. Ma ho una fotofobia altissima. Metto in continuazione, negli occhi che bruciano, lacrime artificiali. Giro col bastone e con questi occhiali scuri da ghiacciaio. In pratica, se vogliamo arrivare a un dunque necessario, da 3-4 anni sono stata definita cieca totale».
La sua storia traumaticamente diabolica potrebbe chiudersi così, con un «poverina» che tuttavia Loredana respingerebbe sdegnata. Potrebbe chiudersi così se non fosse che oggi, a 43 anni, lei fa vela («Come prodiera») a livello agonistico, ci ha provato con il pattinaggio su ghiaccio, ha preso alcune lezioni di arrampicata e gioca a baseball («Uno sport che mi affascina tantissimo»). E gioca, sul campo del centro Saini di Milano, nella squadra mista dei «Thunder's Five», partecipante al campionato italiano di settore con le consorelle di Empoli, Firenze e Bologna.
«Tutti non vedenti e ipovedenti, che però vengono bendati perché il livello del buio deve essere uguale per tutti».
È davvero baseball o è softball? «È baseball. Certo lo giochiamo seguendo regole diverse da quelle che presiedono al baseball dei normodotati. Da noi non c'è il lanciatore né il ricevitore. Esiste soltanto un battitore che, reggendo e lasciando cadere per un attimo la palla con la mano di un braccio, con l'altro braccio e una regolare mazza deve colpirla.
La palla è bucata e contiene dei sonagli. Quando la palla arriva nella zona della difesa, la difesa deve ascoltarla e cercare di prenderla. Con l'ausilio di alcuni vedenti, che indicano dove lanciare la palla, il battitore, lasciata la mazza, si avvia verso la seconda base. Non ci sono giocatori in prima base, dove c'è un punto sonoro che permette di girare di 90 gradi per andare in seconda base. E avanti così, sempre con la guida di vedenti, sino alle basi successive. Ma dalla terza base a casa madre dobbiamo andare da soli, sperando di correre diritti per conquistare il punto».
Capita che con la mazza, anziché prendere la palla, si colpisca la mano che regge?
«Ho rischiato, ma non mi è mai successo. Io sono potente e determinata. Il baseball, come altri sport, mi ha dato e mi dà, dopo gli anni neri e a rischio di depressione, la forza di rimettermi in gioco. Una volta, prima donna non vedente, ho fatto un fuori campo: una festa di applausi che mi ha restituito la voglia di sorridere.
No, quando io colpisco la palla non penso a una rivincita, io non la tiro in faccia al mio destino. Semmai dedico quel mio brevissimo momento a qualcosa o a qualcuno di caro, e spero che la dedica mi porti fortuna per la riuscita piena del mio gesto sportivo e liberatorio. È lì che scarico tutta la mia potenza. È lì che, se sento grida belle intorno a me, ho la gioia di dirmi: la mia dedica era giusta».
Eccola, dunque, alla stretta di mano del nostro commiato. Una mano ferma. Piena di un vigore contagioso.
|