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L'essenza delle cose
Intervista a Giacomo Gatti, autore di un nuovo film documentario sulla vita dei non vedenti
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da Luce Su Luce
di Marco Rolando - (31 maggio 2011)
“Vai all’Istituto e stai lì qualche mese. Prenditi tutto il tempo necessario, cerca di arrivare all’essenza delle cose. Immergiti completamente in quella realtà”. Con queste parole Ermanno Olmi dava consigli al regista Giacomo Gatti su come affrontare le riprese di un nuovo film documentario sull’Istituto dei Ciechi di Milano.
Il giovane regista milanese, già allievo e stretto collaboratore di Olmi, aveva infatti appena ricevuto l’incarico di realizzare il video documentario sull’Istituto dei Ciechi di Milano per celebrarne il centosettantesimo anniversario della fondazione. Era l’inizio del 2010 e il consiglio del maestro venne seguito: la troupe si diede sei mesi di tempo, per immergersi nella realtà dell’ente milanese, per conoscerla da vicino e restituirla attraverso il linguaggio del cinema al pubblico.
Il risultato di questa “affascinante avventura umana” è un documentario di mezzora che racconta la vita delle persone non vedenti e il loro quotidiano cammino verso l’autonomia e la piena integrazione. Sono immagini di delicata poesia quelle che scorrono nel filmato, dove si descrivono la storia dell'Istituto, le attività dei bambini, le imprese sportive, la missione dell’ente attraverso le persone che ci lavorano o che fruiscono dei servizi.
Il film, proiettato per le celebrazioni del centosettantesimo anniversario, è ora disponibile in DVD e grazie alla consulenza del Centro informatico, è stato reso accessibile alle persone con disabilità: attraverso un computer con tecnologia assistiva l’utente può facilmente accedere al filmato. Alla versione normale si aggiungono infatti quella con i sottotitoli per non udenti e un’altra con audio commento per chi ha difficoltà visive.
Abbiamo incontrato Giacomo Gatti alla fine del lavoro per farci raccontare come ha realizzato il film e come ha vissuto questa intensa esperienza.
Come è stato il tuo approccio a una nuova realtà come quella dell’Istituto?
Quando mi è stato commissionato il film conoscevo solo superficialmente la vita dei non vedenti. Ciò può sembrare un limite, ma nel campo dei documentari costituisce un grande vantaggio. Per raccontare una realtà nuova occorre studiarla, e il fatto di saperne poco permette di approcciarla con il giusto sguardo.
La prima volta che arrivi in un posto sconosciuto puoi essere colpito da tutto. Si ha una sorta di sguardo innocente, come quello di un bambino. Per esempio si può rimanere colpiti dal fatto che una persona non vedente sia in grado di versarsi la giusta quantità di vino nel bicchiere o che attraversi una strada con sicurezza. Sono azioni scontate per chi vive da vicino queste problematiche, ma bisogna tenere conto che il pubblico a cui ci si rivolge non ne ha una conoscenza approfondita. Avere uno sguardo ingenuo, senza pregiudizi, offre la chiave per trovare un linguaggio comprensibile a tante persone.
Quanto tempo avete impiegato per realizzare il film?
Le prime settimane le ho dedicate allo studio, partendo da letture di libri che avevano a che fare con il mondo dei non vedenti. Ho trovato bellissimo “Ragazzi ciechi” del pedagogista Augusto Romagnoli. È stato per me un libro di straordinario interesse perché trattava questioni di carattere filosofico generale: del modo in cui i sentimenti vengono recepiti o di come l’idea della sintesi sia fondamentale per avere un quadro d’insieme. Quindi ho filmato una serie di interviste che mi sono servite per capire come la teoria si adattasse alla realtà. Questa fase preparatoria è stata molto utile a entrare nella materia per poi tradurla in immagine.
Sono poi seguiti quattro mesi di riprese e un altro mese per il montaggio. In tutto sono occorsi sei mesi, mettendo insieme una quarantina di ore di ‘girato’. Utilizzare un lasso di tempo così ampio è stata una precisa scelta artistica, che ha permesso di lasciarsi permeare dalla realtà che volevamo raccontare. Sul piano pratico ciò ha comportato la limitazione al minimo della troupe, al fine di contenere i costi di produzione.
So che hai già molta esperienza nel cinema e che hai lavorato in campo pubblicitario. Che differenze ci sono fra realizzare un documentario di questo tipo e un film a soggetto?
Il lavoro di preparazione è anche qui fondamentale, ma si trasforma in una specie di viaggio verso un luogo sconosciuto, al termine del quale poi si scelgono i modi e le forme più appropriate della narrazione. Girare un documentario è un lavoro in divenire, un’avventura umana e conoscitiva che non sai bene verso quali orizzonti ti condurrà. Allo stesso tempo è importante saper conservare quello sguardo stupefatto e vergine di cui ti parlavo.
Che consigli ti ha dato il maestro Ermanno Olmi?
Prima di iniziare le riprese mi ha detto: “Lascia stare i muri, le celebrazioni, la storia. Dedicati alle persone. Sono loro che fanno la realtà” E poi “cerca di capire cosa vuol dire ‘vedere’ da non vedente. Come i non vedenti fanno esperienza della realtà, come provano sentimenti senza bisogno di usare gli occhi”. Ci ho messo un po’ a comprendere tutto questo. Noi vedenti per capire i sentimenti, le emozioni, gli stati d’animo di una persona – ad esempio se è innamorata, emozionata, intimidita - facciamo riferimento alla vista. La vista è il primo strumento di indagine. Uscire da questa prospettiva richiede uno sforzo volontario.
Seguendo questi suggerimenti ho cercato di dare al lavoro un taglio attuale, legato al presente. Il film raccoglie sensazioni autentiche, compresi momenti di dubbi o difficoltà dei protagonisti. Il senso del documentario è mostrare come le persone non vedenti riescano a fare le stesse cose dei vedenti. Questo è il messaggio. Questo è certamente l’elemento che stupisce, che emoziona, che catalizza l’attenzione.
Spostare l’attenzione dai muri e dalla beneficenza agli obiettivi effettivamente conseguiti.
Nel tuo film ci anche sono scene di sport. Ti ha colpito questo aspetto?
Sono stato sorpreso da molte cose, ma quando abbiamo fatto l’escursione in Grigna con il gruppo sportivo sono rimasto letteralmente sconvolto.
Eravamo un bel gruppo, e prima di metterci in cammino mi avevano avvertito che saremmo andati lenti. Io ero tranquillo di avere tutto il tempo per lavorare, immaginandomi che una persona priva della vista non potesse correre sul sentiero. Poi, mentre armeggiavo con la macchina, il gruppo è partito e praticamente non l’ho più visto. Ho accumulato un ritardo di minuti che poi sono diventati una buona mezzora! Andavano come treni!
Ti sono capitati altri imprevisti durante le riprese?
Un'altra situazione divertente si è verificata con la guida di Dialogo nel Buio Giuseppe.
Mi raccontava che l’ultima immagine che gli era rimasta della propria infanzia era di quando andava in soffitta ad ascoltare le campane nel suo paese a Cesate. La situazione era suggestiva e allora siamo partiti verso casa sua per fare delle riprese. Ci siamo messi ad aspettare e poi ci siamo accorti che non suonavano più. Siamo andati dal sacrestano, il quale facendo uno strappo alle regole le ha fatte suonare per noi. Poi la gente in paese si è allarmata della cosa, venendo a chiedere se ci fosse qualche emergenza. Insomma abbiamo creato un po’ di scompiglio in quel tranquillo paese della Brianza. Un'altra bella esperienza è stata una cena organizzata con persone non vedenti al ristorante. Avevano una serie inesauribile di aneddoti divertenti sui luoghi comuni che riguardano i ciechi, sugli stereotipi che hanno molte persone rispetto alla loro vita. Non ci si immagina l’ironia con cui si possa scherzare su una disabilità così grande.
Come mai queste scene non si vedono nel film?
Vi sono molte parti delle riprese che non abbiamo inserito per mancanza di spazio. In tutto avevamo 40 ore di girato e abbiamo dovuto tagliare per rimanere nella mezzora. Mi piacerebbe con questo materiale, insieme ad altre riprese nuove, fare una versione di più ampio respiro, finalizzata alla fruizione cinematografica. L’idea potrebbe essere seguire la storia di alcuni personaggi: tre o quattro storie che si intrecciano, che riguardano i protagonisti del documentario in situazioni quotidiane. Si tratterebbe di prendere queste isole che abbiamo sfiorato e farle diventare storie. Poi sarebbe davvero interessante affrontare il tema del lavoro, che oggi è il tema per eccellenza. Farlo dalla prospettiva di un non vedente mi sembra stimolante e particolarmente significativo. Certo, ci vorrebbe qualcuno interessato al progetto e che potesse in qualche modo sostenerlo.
Da quante persone era composta la troupe?
Di solito eravamo in tre, davvero pochi per un lavoro del genere! Una per la produzione, un assistente alla ripresa e il sottoscritto, sempre dietro la macchina, per essere in grado di cogliere ciò che accade sul momento. In altri momenti eravamo in cinque e per la scena della cena al ristorante una troupe completa, di una ventina di persone, grazie al sostegno della Casa di Produzione BB Productions.
Una delle scene più poetiche del film è quella del bambino che corre libero in un corridoio dell’Istituto. Come è nata?
Il bambino si chiama Luca e con lui si è instaurata da subito una straordinaria empatia. Ha una vitalità straordinaria, una grande creatività e intelligenza. Mi ha stupefatto. A un certo punto delle riprese mi ha chiesto “cosa c’è di qua?”
“Un corridoio” gli ho risposto.
“Ma è grande? Posso correre?”.
“Sì, certo”
Luca ha iniziato a correre e istintivamente ho acceso la telecamera andandogli dietro. È stato un evento imprevisto, che ho cercato di assecondare. Così è nata quella che secondo me è la scena più bella. Senza preparazione, solo con la fortuna di cogliere il momento giusto. Tutto ciò è possibile attraverso un approccio lento, paziente. Darsi tutto il tempo per entrare in una situazione, per viverla, per farla entrare in noi.
Un’altra bella scena conclude il film. È quella dove Marinella, una guida ipovedente, si trucca. Come l’avete realizzata?
Anche quella idea è nata per caso. Stavamo facendo il “prebuio”, quella fase preparatoria alla mostra dove ai ragazzi viene spiegato come affrontare la nuova situazione. Una allieva chiede a Marinella: “Ma come fai a truccarti?” E lei le ha spiegato il suo metodo. Da questa idea abbiamo preparato il set per girare la scena, curando tutto nei minimi dettagli: le luci, la scelta delle inquadrature e gli obiettivi. L’azione è stata provata e riprovata. In questo caso le tecniche del cinema di finzione più sofisticate sono state utilizzate per restituire un dato di realtà. La scena, per quanto costruita, è stata suggerita da una scolara particolarmente curiosa.
Come è stata l’esperienza sul piano umano?
Mi ha premesso di capire una realtà estremamente stimolante. È stato certamente un grande arricchimento. Oggi, che il progetto è arrivato all’uscita del DVD, mi piacerebbe aggiungere un altro tassello e continuare il lavoro. È un desiderio che nasce dall’umanità che sono riuscito a raccogliere e di cui sono stato testimone. È una cosa che difficilmente accade quando giri uno spot o un film industriale.
Marco Rolando
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